Mi chiedo – e prego di contraddirmi – perché credere a dei guitti di declinante fama per una gloriosa storia nazionale, per quanto ricca di buchi di memoria. Siamo sull’orlo di un baratro, più profondo e più imminente di quello che si è aperto dinanzi ai nostri occhi increduli solo qualche anno fa. Già allora ci è sembrato un vulnus alla democrazia. Si insiste. Si fa finta di niente. Forse il microcosmo del quale siamo fatti vuole sperimentare appieno la sfida alle istituzioni finanziarie che governano il mondo, che tutti noi, volenti o nolenti, abbiamo legittimato. Forse nel tempo, forse silenziosamente, e forse inconsapevolmente. Certo, c’eravamo quando queste istituzioni prendevano piede, votavamo, ridevamo delle vignette politiche che irridevano il debito pubblico contratto dai nostri figli prima che nascessero. Eppure ora questo stato di cose c’indigna (a proposito di “dignità”). Noi figli o fratelli del sessantotto collaboriamo con la soluzione finale di una verità che non si appalesa tale, ma che crediamo sia rivelabile, anzi rivelata. Basta! Facciamo santi i meritevoli, ancor prima di candidarli alla rappresentanza nel governo che verrà. Prendiamo in considerazione solo le capacità, impediamo ai giovani sacrificati un sacrificio ulteriore. Basta con i call center (non ho nulla contro di loro) per i laureati con lode, con master e specializzazione, perché le famiglie a trent’anni non si possono più consentire di mantenerli. Chi ha conosciuto e praticato l’economia del dono in un tempo di scambio, di mercato e di prostrazione, non deve cedere alla lusinga della nuova promessa rivoluzionaria. Ogni scelta politica ha un costo. Siamo in grado di fare da soli? Temo proprio di no. Abbiamo solo collezionato una rassegna di piccole e lorde divinità al servizio di se stessi e del proprio cumulo di lodi al proselitismo dilagante (nella migliore delle ipotesi). Basta! Ribadiamo: basta! Avviciniamoci ai focolari, ai luoghi della comunione, laica, cattolica, o d’altra natura. Facciamoci interpreti del nostro giudizio fallace: nessuno ci sopravanzi sulla strada che porta agli incombenti principi della solidarietà, dell’amicizia e della puntualità. Siamo stanchi di pensare ai nostri figli come vittime sacrificali perché non abbiamo i mezzi per tenerli in vita oltre la linea di galleggiamento. Mettiamoci in coda, se abbiamo prestigio tale da far valere le nostre ragioni, il nostro turno verrà, ma non consentiamo a nessuno di fare della raccomandazione un’arma contro il talento, l’unico bene da preservare. Trasferiamo nel mondo ribaltato la nostra idea dell’ordine. Noi non siamo dove ci hanno posti, nessuno merita un posto fisso. Il lavoro, fondamento della nostra democrazia costituzionale, non chiede una stabilità, vuole una prospettiva che deriva dalla relazione stabile tra coloro che ne garantiscono le condizioni. Tutti uniti! E il lavorò verrà, dove sia, perché sia, nella smorfia che lo sforzo giustifica. Sì, il lavoro è sacrificio, senso del dovere, mutilazione di una parte per una parte superiore, e più elevata, assume la sua regola, più di essa impone confini e malinconie poetiche. Una sorta di vergogna, una pudicizia che assona l’individuo alla comunità. Basta di credere che siamo unici e non replicabili! Il nostro mondo muore ogni giorno. La capacità degli uomini è di riconoscersi finitimi e devoti all’ultrazione. La nostra ultrazione è fatta di terra, fuoco e memoria. Una sorta di grande narrazione del divenire, che nel farci schiavi ci ha resi liberi. Lasciate correre i vincenti su questo breve tratto del loro corto fiato, prendete la distanza come un grande insegnamento di vita. Chi supererà il traguardo non vincerà, verrà ingoiato e rigenerato nella curva del Grand Tour didattico-artistico dove avremo un senso. Siate umili, come Igino Giordani, prendete parte ai concerti che vi fanno cantare, siate fragili e nuovi nella tradizione forte del classico, mutatevi in quel che è più esposto al vuoto della vostra anima, non infrangete mai un rimedio, rimediate, ove possibile.