All’apice dei nostri pensieri ci sono case abbandonate, la sollecitudine di notizie mai pervenute, abbracci di fili elettrici su pareti spoglie, la calma che si fa giudizio dietro le finestre chiuse, protervia paura in altre latitudini, un Cristo appeso sbilenco, gli occhi dei treni come gatti spianti, nuvole aggrigliate al tetto nuvole estive, le poche parole che mancano a un discorso completo “io c’ero”, quelle scale divenute rapidamente buie, un simbolo di mani tra le gambe mentre la notte narra di un bimbo solo, cerimonie tavoli e sedie passati di mano chissà dove, locande e locandieri sfiorati dai medesimi fotogrammi, ripiegarsi di case abbandonate nel gesto fetale del mare aperto, lo scandire di un’antenna parabolica che guarda se stessa e le incrostazioni di cui è fatta l’opera umana, in alto e in basso a seconda dei punti di vista mentre il corpo, circuito spento, pulsa sangue da un ponte tra le nuvole, il nome sul campanello che continua a suonare.
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