Proviamo a dare un senso al nostro vivere nel labirinto abbuiato. Ci siamo ripetutamente persi. Qui.
Il ballo in maschera si trova al culmine del suo vortice. S’alzano le voci, cantano motivi inerti riapparsi d’improvviso. Ho udito a distanza una carezza, distanza d’anni e di crepe. La carezza si è spenta tra i capelli, già secca in questi primi giorni d’estate. La morte è un distacco ma anche un modo per tornare a vivere, seguire altri rovi le ferite del fiume i colpi inferti dal martello sulla legna da tempo decapitata.
Si è diffuso tra noi un male collerico, dalle bocche dei figli amati al disprezzo del silenzio dei padri. Hanno bestemmiato, mentre le forze animali urlavano tutte insieme voci servili senza alcuna vergogna.
Il chiasso maldestro ha chinato il capo sul ceppo sguainato come una spada. “Toglimi da qui, cancellami”.
Il mondo di Felice Cecchini, le sue ortensie profonde abitate dai raggi diffusi sulla terra, allertano lo scopo di questa turbata stagione, offrono soluzioni a domande mal poste, spiano l’udito del Male. Lo fanno con quel suo modo di scendere e salire le scale di casa, fermandosi all’altezza della finestra che guarda verso il cielo.
Non siamo riusciti a parlare. Sul filo di carta, inciampare. Prima vengo io, poi vengo io, poi ancora io. Quando chiedi a qualcuno, questa sembra la decisione. Chi viene dall’etere del doppio sa che è sbagliato.
“Obbedisco”. Non andrò oltre. Penserò alla strada che mi resta come un laido ritorno alle origini, al ventre materno impossibile da frequentare così travolto dalla piena, mi ritirerò dove le lacrime drizzano bastioni.
Non temete, dunque, non temporeggiate, tradite quel che siete, troppo grande per esservi contenuto, colmate le bocche vuote sul vuoto del mondo con uova d’aquila pronte a schiudersi, liquido incomprimibile.
Metti ordine, riponi gli sciami tra i segreti del colore, nessun alveo è in grado di conquistarti né temprarti.
Il finale è in salita. “Troppo colma la coppa per lasciarne cadere liquido prezioso. Meglio lasciare le parole dove stanno, vere e giuste. Non sarò io a rimuovere il masso al quale la vita ci ha accostati, facendone tavola su cui bandire le cene dei nostri affetti. Eppure vi è qualcosa che rode il cervello, una vocina assidua che pone domande. Esporsi, allungare la gittata del possibile, a tutela di un avamposto sguarnito, è un dovere o un diritto? E se fossi stanco, stanco di chiudere porte che contengono scene di vita vissuta? Perché l’uomo amato atteso seguitato non mi offre alcun lampo? E se non avessi il tempo la forza la capacità di affrontare questo inganno del cuore? Quel che appare oscuro ha una luce che lo rivela. Ci si trova dove ci si cerca, nelle condizioni date dall’evoluzione delle cose. Questo, il dialogo tra i vivi e i morti. Muto. Non si può lottare contro le proprie stesse ragioni. Ci sono cuori divisi che si reggono insieme”.