Ho imparato che ci sono risposte, non verità. Conversazioni. E sovrumani silenzi, senza quiete. La paura, la paura, la paura. Il coraggio, la cautela, la competenza.
Ho scoperto che si muore, si rinasce, si muore ancora. Poi basta.
Il feto connubiante respira dentro il confine che si è dato.
Tre anelli nella mano, una brigata di ansimi sotto la luna piena.
Fuliggine dei boschi e splendente mantello del platano.
Il dolore somiglia a qualcosa che non conosciamo e che viviamo.
Resistere fino a che è possibile, qualcuno si farà carico del resto.
Stabile organizzazione di quel che sono e di quel che sarei potuto diventare se fossi stato quel che sono. Specchio delle mie brame.
Niente è uguale a tutto. Le vite non sono differenti. Una barriera è caduta.
Il mondo gira disconnesso dai precedenti ancoraggi. Occorre abituarsi. La cosa peggiore da fare è allontanarsi dalla realtà. Qualunque essa sia, ha sempre le fattezze del luogo in cui è consentito vivere. Forse ritrovarci.
Il tubo della diaspora come vocazione alla beatitudine.
L’esperienza emergenziale ha cambiato i canoni affettivi, sconvolto le certezze esistenziali, mandato in frantumi la normalità cardio-circolatoria. Si ha difficoltà a prendere atto che è cambiato tutto. Ci si appiglia alla speranza che sia solo un episodio. Ma non è così. Solo i giovanissimi possono uscirne rafforzati perché saranno in grado di adattarsi al cambiamento mutando pelle. Gli altri saranno segnati da una ruga profonda, una ferita dell’anima, dettata dalla prolungata esposizione all’immobilità inane. O saranno semplicemente spazzati via.
Una persona può diventare un oggetto abbandonato al mare della vita, incapace di sottrarsi al destino del galleggiamento. Variarsi ha un modo di ristorarsi.
Questa la regola. Poi vi è l’interiorizzazione, che qualcuno chiama interpretazione.
Liberiamoci del vestito, apriamo le ali. Volare, volare, volare.