Hans Georg Gadamer e il suo arcobaleno nero, come lo definisce Paolo De Angelis, illuminano la lateralità del “processo” di Kafka. Un’insolita esperienza epidermica quella della visione di un interlocutore che non si vede: “il mondo spettrale di una quotidianità irreale, nella quale si svolge la terribile storia delle sofferenze di Joseph K.”. Quel che fa Willibald Kramm, attraverso i suoi dipinti, è “raccontare la storia di intime esperienze che ogni lettore fa, e che egli vuole tradurre in immagini”. Kramm è veritiero nella sua creazione “nuova”, non meramente illustrativa. Il volto delle persone in prima fila si protende verso di noi. La tensione è palpabile. L’avverte Joseph K., l’avvertiamo noi, che diventiamo, grazie a lui, la poesia di quel delirio. L’innaturale accade naturalmente, dice Gadamer. Tutto procede come al solito, al sicuro da ogni pericolo, i “frammenti” sembrano stare tutti insieme, con la prudenza delle previsioni attendibili. Poi, d’improvviso, “ci troviamo di fronte a uno spaventoso epilogo senza via d’uscita”. La certezza, nel processo kafkiano, diventa incertezza. E rinvio, attesa, asfissia, offuscamento, bassezza, vertigine, panico. Dal “processo” che hanno eretto come un patibolo, dalla nostra vita ritualizzata nei tempi e nei modi del sacrificio umano non si esce. Kafka parla, ma noi non l’ascoltiamo. Il tempo ha un quadrante rettangolare sul quale il diritto scocca ogni ora la sua mezzanotte. La ricerca dell’individuo nei sottoscala del contorto destino rende la prova che vivere è lo scrupolo di una quotidianità rivoltata su stessa. Solo ombre si aggirano nella luce del corridoio che conduce alla vista del futuro. Una luce abbagliante perché finta, mediocre perché al servizio di una ragione senza ragione. La buona condotta costituisce un’aggravante per l’accusa. E in quel sogno non vi sono temperamenti all’oscillazione della falce oscena. Tutto incombe su un uomo solo, rarefatto dalle sue errate convinzioni d’innocenza (nel tribunale labirintico della quotidianità gli accadimenti svolgono una trama elementare e controproducente). Qui non si vuole convincere nessuno, non si vuole familiarizzare con lui. All’esterno del tribunale, intangibile e sovrano fino al ghigno, le porte si chiudono e l’uomo letterario indica all’uomo vivente la solitudine di cui è capace e che egli non vede, non sente. L’accusatore si china, le mani sudate al collo delle circostanze che fanno d’una vittima un condannato, libero da ogni imputazione. L’essere colpevole di Kierkegaard e di Schopenhauer non svela niente. L’enigma non può essere sciolto. Chi lo fa, moderno Edipo, trafigge la sua speranza di disvelamento, rimanendone trafitto. Il viale del tramonto è l’azione conclusiva, disadorna, discontinua, compulsiva. Gadamer ipotizza una “teologia kafkiana”, interamente fusa con il sapere ebraico. Si torna alla realtà, se da un processo si torna a qualcosa che appare il vero. Una grammatica del diritto escluso inumidisce il volto e il corpo tutto nella fodera di un gelido pensiero. Avvallamenti, tensioni, abbracci chiedono di tornare. Ognuno, in questi casi, è come un bambino che si protende alla lavagna più grande di lui, si contorce, sussurra, geme tra sé, violando il diritto di difesa del proprio malanno. La volontarietà è la sintesi di una scelta radicale. Ora il corpo si avviluppa come un serpente, mentre la voce si spegne in gola, pubblica discussione e pubblico abuso. La distanza evade dal limite, il deserto sommuove la duna, Joseph è l’aviatore. Il soliloquio è spinto sull’orlo del precipizio. Tutti sanno, tutti tacciono. Venti anni fa. Il processo è tale se qualcuno lo riconosce come tale. Chi lo ha disconosciuto non è bastato. Si torna a leggere la fiaba dell’innocenza, le dita del giudice istruttore sfiorano la lettura, rendendo l’accusa intollerabile. Brucia il manoscritto, dice Franz a Max. Lui non lo fa. Willibald disegna figure piene, dolenti. Io sono qui. Per me, per te. Se pensate a Gesù sul Golgota, rifate il processo, con urgenza, ogni volta che processate un uomo e un innocente, non festeggiate mollemente la sua processione.
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