“Se siete parte di un processo” (l’espressione è tratta dal Voltaire del dizionario filosofico), coloro che vi perseguono fondano scene significative della rappresentazione sui sensi di colpa, che stanno nel fascicolo processuale dell’accusa. I sensi di colpa, si sa, dimorano nella coscienza delle persone, per chi ne ha una. Un innocente, dopo diversi lustri di un processo infamante, dichiarò che per sopportare il dolore della ingiusta condizione alla quale si vedeva costretto, si era convinto, pur con qualche tentennamento, d’essere colpevole. Aurighi del senso di colpa sono alcuni duellanti processuali, che lo istigano, facendo affidamento sulla soggezione che suscita il potere pubblico e sulla fibra del resistere, afflitta dall’errato convincimento che quel che accade sia ineluttabile. E voi, che “siete parte in un processo”, all’oscuro del “libro” che parla di voi, dalla cui “interpretazione”, dice Voltaire, “la vostra stessa vita dipende”, sarete follemente disposti a giurare il falso per provare il vero, pronti a farvi carnefici del pregiudizio di cui siete vittime. E se nel “processo” di cui siete “parte” non sedete che voi, come in una macchina in panne, molti altri partecipano, da un versante all’altro della contesa, tutti a gridare qualcosa che vi concerne e vi offende, se pure non fanno il vostro nome. Così, la difesa diviene un atto d’umanità affidato al caso. Il “vostro onore”, che ripetete come un mantra, si muove sulla linea dell’orizzonte, piccola figura di un tramonto insanguinato dal vostro sangue.
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