Dal ribaltamento degli schemi, vinti non eliminati, nasce il grande impegno alla commozione, come sentimento del proprio tempo suscitato dalla poesia. Non dato irrazionale avverso gli statuti razionali, ma dinamica concretezza che fuoriesce dalle viscere della terra e genera novità create nell’attitudine al bello. Ciò che i giuristi chiamano, con superficiale valentia, “effettività”, per i poeti è una domanda senza risposta, dato che il mondo vive su di loro come un peso insopportabile, di cui essi non possono avere esperienza diretta. Solo un amo, come un “io ti amo”, può guardare in quelle profondità sfiorandone le immense ricchezze e le loro solitudini. Contro il principio di proporzionalità, concordante e non corrispondente, si schiera l’esercito in lotta dei poeti, che vergano su tavole di lucido cristallo le parole d’una contraddizione eretta a sistema, una regola che nega le fissità e cerca, nel calarsi, la sua altezza estrema, come una consuetudine che muta ogni cosa e di continuo, fino allo sfinimento. L’indicazione di una frazione di secondo esclude la perseveranza, induce alla durata, direbbe Handke, circoscrive una totalità. Si è altrimenti afflitti da precomprensioni e incomprensioni, come un folle che usa le parole, anche le più semplici, che non conosce e gli sfuggono dalla mente, parandosi a lui d’improvviso, in maniera collerica e minacciosa. In questo angolo nero, che la poesia tenta di illuminare, si finisce, attraverso una bussola, dimenticando l’orologio, in una spazialità nuda, dove la veste si contorna di aghi di polvere e fiumi in piena che odorano sponde ulteriori, giacenti ai margini del senso. Scrivere non precede il verso. Chi legge lo sa e si affida a una ripetizione, una preghiera per un miracolo, o un’assenza inconsolabile. Tutto qui, tutti qui. Con una lunga pausa nel mezzo in cerca di pepite, linguaggi smossi nella terra da un piede in ombra che tra le foglie vede il cielo. Vecchi scriteriati sentenziano dal nome che portano come se dovesse significare più del verso che hanno dimenticato. Non è così, ancora pochi istanti e poi si cade nel baratro, quando invece una vocina accorre al capezzale con viso di fiaba. Sono i cultori delle materie giuridiche, affratellati ai matematici silenziosi, ad accendere le luci dei laboratori nei quali si sperimenta la specie, si muta la sostanza, nessuna esclusa, modificandola in vitalità reclusa. Non ci sono regole nell’ultimo orizzonte, si ripete. E il riflesso è già affermazione: “le regole nascono quando manca chi pensi”. La fugacità è il tempo della durata. Non va mai tradotto l’intraducibile. Leopardi ne sapeva qualcosa. Trasformare il mondo in verità è un’operazione troppo ardua per un uomo solo, per quanto letterariamente attrezzato. Leopardi taceva quando si faceva chiasso sui principi fagocitanti. Lui era temperato da se stesso, dal corpo suo. La hybris della sopravvivenza non gli era affine. Sapeva del destino imminente. E ne faceva canto, una macchia d’olio rosso sangue sulla superficie marina. Segnava lontananze. Non desiderava altro che esser visto in una cecità di giochi bambini. Lui che era mutilato al massimo grado, soffiava nella tromba marina la voce che richiama il passato bruscamente, in cerca di una forma non prematura. Quel che noi chiamiamo universo aveva in lui luogo.
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