Cinque stazioni di transito e una meta. Tre delle cinque stazioni sono fiabe, per grandi e piccini – un piccolo principe, un gabbiano solitario, un compagno di viaggio – e sono come foglie tremanti al vento, non sono emozioni in se stesse ma riescono a darle a chi nel leggere coglie il calore universale, fulminante della letteratura come messaggio di un’anima in cerca di un’altra anima, la parola che dal distacco consente la ricongiunzione di quei due corpi nel piacere dell’abbraccio stimato impossibile ma realizzabile. La letteratura, la vera letteratura, insegna a vincere non a sentirsi sconfitti, aprendo il suo diario ad uno sguardo benevolo e non competitivo. Un tipo di vittoria che ha molto in comune con l’eroismo della semplicità. Poi ci sono altre due stazioni, sintonizzate sulle fiabe (sussurrate alla voce conclusiva dell’umano limite): quella della poesia, che scuote senza trattenere l’Infinito tormento dell’orizzonte (il “giovane favoloso”), e quella della narrazione processuale, ideata per condannare innocenti (paradigma Dreyfus) come regime della negazione e, in controluce, prova documentata del fatto che immaginare consente di vedere la semplice realtà, una minaccia sempre per il potere e i suoi riti consolatori. Alla fine delle cinque stazioni – dopo che si è scesi, fatto quattro passi, respirato il freddo pungente della campagna e fumato una sigaretta – si torna a casa, percorrendo a piedi l’ultimo tratto di strada e ripensando ai frammenti di un discorso favoloso, che è anche “amoroso”, alla Roland Barthes, appiccicati alle pareti come fotografie di segreta bellezza.
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