Ci sono storie che non hanno nulla a che vedere con il diritto eppure lo transustanziano. Le storie di cui parlo generano mutazioni involontarie. La sostanza del diritto ne è incisa così profondamente da cambiare l’elica genetica di cui è composto. Non è la narrazione a respirare le parole decisive dell’argomento giuridico ma il fatto che le si impone, con la sua anima arida di deserto e nuvole.
Ho raccolto l’informazione sommaria d’una persona a conoscenza di un fatto non rivelato. Come accade spesso per i nascondigli, li si mette in bella vista. Così fece Calipso con Ulisse.
“Sono partito con l’idea di allontanarmene? Qualcuno mi imponeva una soluzione data? Il registro delle presenze, nella mia anima, s’infittisce di nuove figure retoriche, che mi spingono ad uscire da qui, dal posto convenuto nel quale mi trovo. Forse un ruolo trascritto con la paziente mano del cancelliere di un’oscura sezione giudiziaria, o con quella minacciosa del procuratore di turno, o del militare, obbediente ad una logica di sistema, in cerca di notorietà. Di quale posto si tratta? Di quello del diritto, neanche a dirlo! Un diritto giovanile, spensierato, con i suoi capelli al vento, improvvidamente aderente al cranio della morte processuale. Un diritto di cui ho sempre diffidato, tenendomi alla larga dalle beghe, dalle dispute colleriche, noiosamente uguali a se stesse. Un diritto senza respiro nel quale, mio malgrado, sono finito. Appena ho fatto ingresso in questo luogo sconsacrato, mi sono reso conto che si materializzava un incubo ricorrente, da tempo programmato sullo schermo immemore del giurista ben attrezzato. Sapere non è motivo di consolazione. Naturalmente. Sapevo, ma non potevo far nulla per evitarlo. In questo luogo ristretto, ho preso parte alla sarabanda della temuta dissoluzione personale, quella pomposamente avversata dalla nostra Costituzione, per sedere ad una mensa spoglia, imbandita per dare gusto all’insipienza del potere”.
“Sono partito da alcuni fatti drammatici della mia vita. Ma non posso andare oltre. Non prevedo, nello spazio e nel tempo in cui mi trovo, la configurazione di alcuna regola del gioco, perché di gioco si tratta, di gioco corporativo, screditante e aleatorio, con buona pace di coloro che si ergono a tutori del buon nome della giustizia, la vera assente sulle cattedre e nei servizi radio-televisivi”.
“Via dal diritto. In fuga dal diritto, per non vedermi disteso sul lettino di una sala di rianimazione, nel coma vigile al quale sembro, non diversamente da ogni altro nella mia situazione, da sempre e per sempre destinato. Il coma vigile corrisponde, in termini medico-sanitari, alla stagnazione processuale, la cui forza oggettiva esprime la consistenza deforme di un ossimoro, ed al silenzio che vi si avvolge selvaticamente intorno, come una pianta velenosa che copre ogni verità”.Cosa ci vuol dire il nostro testimone? Ci vuol dire che nel momento in cui si è impegnato, in sede processuale, a comprendere il meccanismo utile a disinnescare l’ordigno inesploso che gli è stato consegnato a domicilio, pur essendo egli avvertito dalla coscienza professionale del giurista, si è trovato a far fronte ad una minaccia impossibile da vincere. Di questa minaccia indistinta si compone essenzialmente il diritto. Uno strumento scottante, evoluto e perverso, perché molto battute sono le sue strade, ma riservato a pochi è il linguaggio incompiuto, ultimo che lo rappresenta, nel quale ogni affermazione e il contrario di essa si nutrono paradossalmente dello stesso senso. Un fiume in piena che si riduce al rubinetto della decisione giudiziaria, dove tutto si crea e nulla si distrugge. Il fatto non è più il fatto, spirato alla sua condizione originaria, ma un succedaneo opaco, appena verosimile, con il quale dover misurare la sublimazione retorica della violenza sedata, ammantata di buon senso. La “scopa del sistema” entra negli angoli e fa pulizia. Per farlo dà un nome alle cose, utile al proprio obiettivo politico. Nel processo campeggia il non detto, si pretende la risposta esatta ad una domanda non avanzata in forma esplicita. Il processo vive di un arcano. Il diritto, che con esso deve fare i conti, volente o nolente, per il suo tramite, assume dimensioni ruvide e tribali, indossa l’orrida maschera dell’improcrastinabile, senza muovere mai un passo dalla o verso la fiducia che lo legittima, l’umanità che lo ravviva. Si stende, alla sua sommità, il verbale di un rito collettivo per bocca di un individuo singolo, arreso agli incubi, ai pregiudizi del flusso vitale che pretende di governare. Si prende le mosse da un impeto artatamente confezionato e lo si porta avanti, senza mai un dubbio, un ripensamento, nella imprudente certezza del diritto.
Qui pende la forca dell’uomo comune. Qui il suo cuore si ferma, la fisionomia si altera. Qui la vittima diventa carnefice. Qui l’autore del male è colui che dispone del potere di pronunciare la condanna dell’innocente. Qui l’orologio della storia si spezza in mille frammenti innaturali.
Si può non credere al nostro testimone? Chi non conosce l’infamia del giudizio? Da qui si origina il diritto, dalla presunzione, solo apparentemente coerente, di distinguere il bene dal male, e di fissare regole, a volte molto complesse, per presidiare lo stato delle cose che il giudizio tende a preservare. Dopo la Caduta e la Torre di Babele, il problema del diritto è un problema linguistico, ma non c’è bisogno di scomodare altre discipline scientifiche per ritrovare l’unità perduta. Tuttavia, il problema linguistico non è un problema di linguaggio, in mancanza di un garante che lo statuisca o lo traduca. Il problema linguistico sta tutto nella mutazione di senso, nell’alterazione del significato socialmente condiviso della funzione giurisdizionale. Questa civilizzazione senza educazione giuridica rischia di produrre guasti maggiori delle credulità primitive. Si tratta di un apparato elusivo, che deliberatamente omette di esporre le proprie tesi mediante una verificabilità razionale.
Consiglio di leggere il bel volume della Filema Edizioni, La lingua del perdono di Bruno Moroncini (Napoli, 2007). “Le lingue diventano apparati giudiziari e le parole sentenze emesse a conclusione di un processo: attraverso il linguaggio i soggetti vengono inchiodati ai predicati, schiacciati su di essi, condannati a coincidere col contenuto significativo sancito nella e dalla proposizione”. La “banalità del male” della Arendt, anticipata da Benjamin, ha “bisogno, a fargli da terreno di coltura, di una specie di distrazione ai limiti del frivolo e di un rassicurante conformismo: per commetterlo, si potrebbe dire, non c’è nemmeno bisogno di esercitare la violenza, basta il chiacchiericcio quotidiano, il normale scambio di informazioni, la parola detta così tanto per dire” (pp. 11-12): la “ciarla” kierkegaardiana, in altre parole. Questa “invenzione del diritto” (in un’accezione, sia pure diversa, ne parla Paolo Grossi) serve a qualcuno, perché il male “non esiste, è un miraggio, l’illusione prodotta dalla forma stessa del giudizio, dalla nostra perversa volontà di giudicare e giudicando distinguere ciò che è bene e ciò che è male” (B. Moroncini, p. 10).
Giudicare genera conflitto, non lo placa, come dimostra Paride dopo il “pomo della discordia”.
Via dal diritto è la sola via del diritto. La fuga proposta da Filippo Turati come forma al contempo di oblio e di memoria, ricerca di una possibilità, supporto all’azione di un inedito “terzo”, colui che è giudicato, non colui che giudica. Lontano dai parrucconi, dagli spericolati e dai dogmatici, che nella pratica fanno avventura del diritto, ostacolano e deridono i suoi valori, costituzionalmente vergati sul cocuzzolo di una montagna dove i superstiti di una battaglia civile si ritirarono, dopo molto patire, per far lezione di un tempo migliore, buono per ospiti a venire d’una terra inospitale.
Cosa può accadere in tali ristrettezze? Di non farcela. O di trovare un secondo testimone, a discarico. Nella forma dell’angelo custode. Si chiamava Giovanni Simonelli. Il 17 dicembre 2014 il donatore fece un dono e l’accompagnò con un bigliettino, nel quale scrisse: “Un semplice oggetto che sappia trasmetterti il caloroso affetto che sento per te. Un oggetto, all’apparenza, simmetrico, preciso che, però, può e sa modellarsi alla persona. Un oggetto dai colori decisi, eppure tenui. A te che, nel guardarti senza osservare, sembri irraggiungibile ma che, in realtà, hai voglia di dare e fare tanto per gli altri; a te che tenti di nascondere la tenerezza dei bimbi, che i tuoi occhi non vogliono e non sanno celare; a te che tutto ciò che fai non lo rivendichi, non lo imponi, calandolo dall’alto del tuo cuore con delicatezza”.