In fondo, siamo sassi di un fiume che perde acqua nel suo corso e si prosciuga. Erti torrentelli autolesionisti che hanno fatto di se stessi e dei propri argini i margini di un errore all’infinito delle stesse intemperanze. Ora so che il cuore ha bisogno d’altro: camminare senza disperdere la preziosa natura del proprio vedere. Reggiamo così poco nelle nostre mani, perché lo spirito ci è devoto e non vuole farsene una ragione della fine imminente. Ha la vista lunga lo spirito e una insaziabile curiosità. Ma chi ci ha mostrato la via di certe rivoluzioni dello spirito ignorava che tutto questo in noi si sarebbe tradotto in un modo di farci del male. I nostri figli s’assillano in nostra vece o emulandoci: questo è un aspetto. Ormai è tardi per cambiare strada, loro già hanno bevuto il nostro veleno, ma si può, da soli, prigionieri della nostra solitudine, mutare questo cibo in un’ala elementare, una sola ala, manchevole dell’altra, che trova nello spirito la sua pratica minima. Lo abbiamo fatto per renderci tollerabili al mondo, perché la nostra natura assoluta non voleva mediazioni, ma siamo diventati vittime dei nostri incubi sperimentali, soffocati da briciole d’umana dolcezza, che abbiamo rubato alla tavola del dio cieco. Ecco, la nostra colpa è stata non aver perdonato la nostra colpa, non aver trovato un freno al bisogno d’amore e aver tralasciato quel che avevamo, così diverso dal sogno che contribuimmo a costruire. I nostri figli sono lo specchio di questa contraddizione, di questo spaventevole amore reso fragile dalla propria grandezza. I sensi di smarrimento prescrivono un rimedio peggiore del male. Curiamo l’ala ferita, il turbine del vento aspetta quel volo. Torniamo dove d’abitudine siamo, come una parte della libertà d’essere che ricordiamo d’essere stati. Non frazioniamo il rimedio, traiamolo dallo spirito indivisibile. E tu, tu non lenire la pena, portala con te, ogni pena possiede una forza lenitiva.