Mi chiamo Rimbaud. Non sono vivo né morto. I pattini della Mosa scrivono un libro di memorie nella corrente elettrica dei giovani anni. Sono un reporter senza spese di viaggio. Ho subìto l’inferno dell’Occidente e i climi di una ragnatela raggelante sistemati nella calotta cranica. Fortuna che il mio maestro di retorica fosse giovane anch’egli! Se ripenso ai miei amori, li vedo portati in spalla da una baionetta. I sessant’anni sono il limite estremo della diserzione. Non ho polso, né ginocchio, né forza alle spalle. Quando mia sorella è morta del mio stesso male, il nome di Arthur (terza persona) scriveva poesie per un «dio che ride sulle tovaglie di damasco degli altari». Nessuno si aspettava una fine così precoce. Neppure Larkin avrebbe scherzato sulla mia infelicità, che «passa di mano in mano, sempre più a fondo, come una scogliera» e suggeriva, a proposito del Verse, di toglierci dai piedi appena possiamo e di «non mettere al mondo dei bambini». Le mie sono state lettere di una veggenza che non lasciava spazio all’arte. Non vi è alcuna eredità per le lacrime di un ubriaco. Ho visto i parnassiani più volte, il loro scialbo dominio si è sollevato con il vento di Verlaine, lasciandomi solo. Quando verranno a prendersi il corpo, mia madre lo seguirà fino alla tomba di famiglia. Ognuno ha diritto alla verità dell’amore. Poeta, viaggiatore, trafficante d’armi e di schiavi, ho visto più volte la politica francese e quella inglese accordarsi a discapito dell’avorio e del caffè di un’Africa assopita e ribelle, come il mio cuore. Non voglio dire che scrivere sia vano. I miei resoconti commerciali qualcuno li legge ancora, ma lo stile che mi è stato proposto reca raggi di sole nascosti nella mano. A quelli penserò quando la mano lancerà i dadi e farà silenzio sull’ora e sul giorno che i numeri indicheranno. Guarderò da un aereo le terre emerse, le abitazioni i campi coltivati i mestieri. Leggerò un articolo sulla rivista on line morta prima che io nascessi. E il mio canto sarà a Te dedicato. Una saggia narrazione profilattica suggerisce di chiudere questo resoconto con una nota al merito di coloro che si occupano di Me, come letteratura, anche se m’impegno ormai a fare altro e le mutande stirate giacciono nel cassetto, non facendo parte dei miei interessi il servizio domestico. Ho un sogno terribile: svegliarmi in un bagno di stupore, con la mia pelle addosso, rugosa e fredda. Io non sono io, ma un altro (Io è un altro). Forse un orso ammaestrato, un’anima ostruita dal buon costume del quale fanno ammenda i miei avvocati, e i chierici d’una vasta provincia intellettuale.
«A cominciare dalla fine: la sideralità molle e pedante del futuro è sconfitta dal vedere e dal sentire nel presente. Chi dice d’essere un poeta dovrebbe ricordare d’essere un tramite, una folgore per il cielo, una risposta per una domanda, sempreverde fin quando quello sarà il colore dominante. Poi non sarà più nulla, se la meteorologia, che appare e scompare dalle vite viventi, disporrà per lui». E un po’ di silenzio non guasta. Rimbaud ha fatto grande letteratura tacendo. È scritto tutto in un soffio. Sul viso sfigurato, sulla brace che si spegne. Sanare l’insanabile, far primavera delle parole, dar loro un profumo, un suono, un colore è il compito della letteratura. La sua legge vale per pochi. Non credo neppure che esista una legge, se non per scassinare quella esistente: la cassaforte di un principe albanese in un sottoscala della città vecchia.