C’è un santuario dietro ogni persona. Come un fondale di colori non episodici raccolti intorno alla rappresentazione della sua vita, mossi in una direzione sconosciuta, anche al protagonista sulla scena emotiva. Un disordine misterioso agita l’ardore di ogni azione umana. Fa bene a raccontarla chi ne ha l’istinto e la forza. Quest’ultima è particolarmente consigliata, perché bisogna reggere con una mano un peso troppo grande da portare se l’immaginazione non si mescola alla pietà. Un olimpo è il volto di ogni persona, posto a distanza siderale dall’osservatore, eppure visibile nitidamente. Bisogna sforzarsi di passare il letto del fiume con le ali di una farfalla in cerca di un fiore, il più acconcio a quel breve battito d’ali. Per spiegarlo si esponga un giorno di vita, uno qualsiasi, dall’inizio alla fine. Dentro c’è tutto quel che occorre ad aprire e ricucire le ferite, far cadere le armi e tentare la fuga nei sottopassi della propria natura orchestrale; c’è il viaggio, il cortile, la paura, la giovinezza e la vecchiaia. Chi affonda distratto la mano nel corpo di un attimo di vita non trova niente, una pastosità molle e oggetti, milioni di oggetti, accolti nel grembo della maternità divina. Basta un giorno, uno qualsiasi, l’ieri che ho vissuto. Le notizie dal fronte, i morti per errore e viltà, i vivi per le stesse ragioni, i gesti di un pittore fauve con il suo pennello per aria in attesa di un colore che lo stemperi, le notizie del viaggio, la paura di restare privi di certezze, scomposti su una sedia al sole, o nel cortile dell’infanzia a rincorrere farfalle sul letto di un fiume troppo rapido per le nostre ali. Non viene mai nessuno a farci compagnia. Ci mettiamo raccolti in preghiera, come un bronco che fa fatica a respirare, e lasciamo che le cose fluiscano, da qui alle pendici del monte olimpo, con il volto della persona amata infisso nelle pareti di agave e pungitopo. Le chiediamo: “come puoi avermi lasciato?”. La risposta, sempre, si nasconde nella domanda. Quando esce fuori è un bel “Sì. Il tuo bene mi era caro. Ma tu non sei tu. Non posso amarti senza legami, intoppi, cadute e redenzioni”. Amo – ammette l’alter ego – la persona del rifiuto, quella del disprezzo, colei che avete rinchiuso nell’isolamento della mente, nella meschinità dei suoi intrattenimenti, la persona umana, in carne ed ossa, dopo secoli di svelamento del tono principale dell’umore. Per parlarne ho dovuto far ricorso all’effetto deviante, la figura apparentemente remota del reietto, sincera espressione mistica della lacerazione umana. Egli è per me il volto santo nel santuario della vita, lo venero non per le sue colpe, se ne ha, ma per gli istinti repressi, per i sogni da pochi o da molti infranti, dominati. Ogni persona merita le venga riconosciuto quel santuario, perché lo ha costruito, con l’ingegno e le spalle. Se errore e viltà lo hanno scosso, come il brivido della febbre, non togliete l’uomo dalla sua storia, non disperate i giovani cuori nei giardini degli innumerevoli segnali, strappando la loro speranza alla facondia rigenerante delle azioni. In questo modo potrete comprendere e giudicare ciò che vi chiede l’ordine costituito: innocenza. Dicono le scritture di Paolo De Angelis: “Gli astri della primavera, cambiati i giri, complicano tutti i segnali. Come potremmo essere insensibili a queste masse ferrose che attraversano il cielo? I fiori e l’aria azzurra coprono un’oscura tempesta”. Leggete le linee frante dell’alfabeto morse per risalire, da qui, le correnti impetuose di un desiderio d’infinito. Non separate il divino dall’umano nel santuario immaginato della vita. Sul gradino più alto sta la Misericordia, unica vittoria del bene sul male. La Gratuità, dicono gli economisti più avveduti, un nuovo senso di marcia, un modo per stare insieme, una ragione di vita pronta all’esproprio, che nessuna materia può compromettere e, quindi, non espropriabile.