La gentilezza è il contorno del corpo. Come un’aura.
Anche morire è un modo di dire, con gentilezza: “questo è tuo, fanne quel che vuoi, io vado via”. Il caso e la trascuratezza scolorano.
Mi piace la gentilezza perché non si spezza quando la pieghi, non è stanca quando la metti sotto al torchio, non cambia strada se le vai contro.
La gentilezza non si dona solo agli amici, come scrive Colette, si riserva ai nemici.
Amo la gentilezza perché sono cresciuto tra le sue braccia di violenza gratuita.
Chi mi ha ferito mi fa rabbia, eppure mi ha dato il modo di conoscerla e di chiedere di tornare a farmi visita.
Mi rendo conto che in giro non ce n’è molta di gentilezza, ma ho visto la sua abbondanza in luoghi afflitti e sconsiderati.
Che gioia ritrovarsi insieme, fianco a fianco, con persone che tacevano e desideravano un modo gentile nel quale riconoscersi!
Sono stato derubato sull’autobus, ho ringraziato e sono sceso. “Sei scemo?” Mi hanno detto. Ho ringraziato per quella grazia che ci aveva attratti in un momento di niente.
“Non so se tornerò a farti visita”, mi dice ogni volta, come un’eroina bruciata sul rogo, poi bussa alla porta, prende l’elemosina e china il capo, non nega quel che è suo, perché la gentilezza ha una vita paziente e profonda, ti parla quando nessuno ti parla, si volta se chiedi aiuto, e quando il conto sta per chiudersi e serrarsi ti invita a tornare sul luogo in cui sei stato per cambiare la tua sorte e sovrastarla.
La gentilezza è una carrucola, sale e scende tra le mani dell’umiltà e del disprezzo, ripete sempre la stessa fatica, sa che ripetere un gesto è un atto di gentilezza.
Amo la gentilezza tra le scale, le strade, le porte. Amo gli stupidi che la praticano.
Chi sa ciò di cui parlo si unisca a chi sa ciò di cui parlo, si muova, non tardi.